GIUBILEO DELLA MISERICORDIA
DALL' 8 DICEMBRE 2015
Discorso di papa Francesco ai frati e alle suore dell’Ordine domenicano
Cari fratelli e sorelle,
questo anno ha un significato speciale per la vostra famiglia
religiosa, perché si compiono otto secoli da quando Papa Onorio III ha
approvato l’Ordine dei Predicatori. In occasione del Giubileo che celebrate per
questa ragione, mi unisco a voi in rendimento di grazie per i doni abbondanti ricevuti
nel corso di questo tempo. Voglio esprimere inoltre la mia gratitudine nei
confronti dell’Ordine per il significativo apporto dato alla Chiesa e per la
collaborazione con la Sede Apostolica che, con spirito di fedele servizio, ha
mantenuto dalle origini fino a oggi. E questo ottavo centenario ci porta a fare
memoria di uomini e donne di fede e di lettere, contemplativi e missionari,
martiri e apostoli della carità, che hanno portato ovunque la carezza e la
tenerezza di Dio, arricchendo la Chiesa e mostrando nuove possibilità per
incarnare il Vangelo attraverso la predicazione, la testimonianza e la carità:
tre pilastri che garantiscono il futuro dell’Ordine, mantenendo la freschezza
del carisma fondazionale. Dio spinse San Domenico a fondare un “Ordine di
Predicatori”, essendo la predicazione la missione che Gesù aveva affidato agli Apostoli.
È la Parola di Dio che brucia dentro e spinge ad andare per annunciare Gesù
Cristo a tutti i popoli (cfr. Mt 28, 19-20). San Domenico diceva: «Prima
contemplare, poi insegnare». Evangelizzati da Dio, per evangelizzare. Senza un’unione
forte con Lui, la predicazione potrà essere del tutto perfetta, molto
argomentata e perfino ammirevole, ma non tocca il cuore, che è quello che deve
cambiare. È altrettanto imprescindibile lo studio serio e assiduo delle materie
teologiche quanto tutto ciò che permette di avvicinarci alla realtà e dare
ascolto al popolo di Dio. Il predicatore è un contemplativo della Parola e
anche un contemplativo del popolo, che attende di essere compreso (cfr. Evangelii gaudium, 154).
Trasmettere più efficacemente la Parola di Dio richiede la testimonianza:
maestri fedeli alla verità e testimoni coraggiosi del Vangelo. Il testimone
incarna l’insegnamento, lo rende tangibile, attraente, e non lascia indifferente
nessuno; unisce alla verità la gioia del Vangelo, la gioia di sapersi amati da
Dio e oggetto della sua infinita misericordia (cfr. ibid, 142).
San Domenico diceva ai suoi seguaci: «A piedi scalzi, andiamo a predicare». Ci ricorda il passo del roveto ardente, quando Dio disse a Mosè: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Es 3, 5). Il buon predicatore è consapevole di muoversi in una terra santa, perché la Parola che porta è santa, e lo sono anche i suoi destinatari. I fedeli non hanno bisogno soltanto di ricevere la Parola nella sua integrità, ma devono anche sperimentare la testimonianza di vita di colui che predica (cfr. Evangelii gaudium, 171). I santi hanno portato frutti abbondanti perché, con la loro vita e la loro missione, parlano con il linguaggio del cuore, che non conosce barriere ed è comprensibile a tutti.
Infine, il predicatore e il testimone devono esserlo nella carità.
Senza questa, saranno discutibili e sospetti. San Domenico ebbe un dilemma all’inizio
della sua vita, che segnò tutta la sua esistenza: «Come posso studiare su pelli
morte mentre la carne di Cristo soffre?». È il corpo di Cristo vivo e sofferente,
che grida al predicatore e non lo lascia in pace. Il grido dei poveri e degli
esclusi risveglia, e fa comprendere la compassione che Gesù provava per la
gente (Mt 15, 32). Guardandoci intorno, riscontriamo che l’uomo e la donna di
oggi sono assetati di Dio. Sono la carne viva di Cristo che grida: “ho sete” di
una parola autentica e liberatrice, di un gesto fraterno e di tenerezza. Questo
grido ci interpella e deve costituire l’ossatura della missione e dare vita
alle strutture e ai programmi pastorali. Pensate a questo quando riflettete
sulla necessità di aggiustare l’organigramma dell’Ordine, per discernere la
risposta che si deve dare a questo grido di Dio.
Quanto più andremo a saziare la sete del prossimo, tanto più
saremo predicatori di verità, di quella verità annunciata con amore e
misericordia, di cui parla santa Caterina da Siena (cfr. Libro della Divina
Dottrina, 35). Nell’incontro con la carne viva di Cristo siamo evangelizzati e
ritroviamo la passione di essere predicatori e testimoni del suo amore; e ci
liberiamo dalla pericolosa tentazione, oggi così attuale, dello gnosticismo.
Cari fratelli e sorelle, con cuore grato per i beni ricevuti dal
Signore per il vostro Ordine e per la Chiesa, vi incoraggio a seguire con gioia
il carisma ispirato a san Domenico e che è stato vissuto con sfumature diverse
da tanti santi e sante della famiglia domenicana. Il suo esempio è stimolo ad
affrontare il futuro con speranza, sapendo che Dio rinnova sempre tutto... e
non toglie. Che Nostra Madre, la Vergine del Rosario, interceda per voi e vi
protegga, perché siate predicatori e testimoni coraggiosi dell’amore di Dio.
Grazie!
Papa Francesco Non passare oltre
«Chi è il mio prossimo?». In questa meditazione spirituale, p.
Timothy Radcliffe, maestro dell’Ordine dei frati predicatori (domenicani) dal
1992 al 2001, rilegge la parabola del buon samaritano come il racconto della
trasformazione dell’identità umana. L’identità del samaritano è trasformata
attraverso il suo gesto di compassione, perché egli non percepisce l’identità
dell’ uomo ferito, così come invece fanno il sacerdote e il levita, come una
minaccia e un ostacolo alla propria. Così crea una relazione nuova, e in questo
modo assume egli stesso una nuova identità, trasformata dalla carità. Ma più in
profondità ancora, la parabola narra anche la trasformazione dell’identità di
Dio: i gesti, la compassione del samaritano rivelano il nuovo luogo in cui si
rivela la santità di Dio. «Il Dio della vita si manifesta quando chi sta ai
margini diventa il centro (...) In
definitiva, è proprio Dio che giace sul ciglio della strada, lacero e stremato,
e mi sta aspettando».
"Amerai il prossimo tuo come le stesso."
"Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico" (cf Lc 10,2
7-3 7)
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il
mio prossimo?"
Ama il prossimo tuo come te stesso... È semplice, ma il dottore
della legge non è soddisfatto. Vuole una risposta chiara, e forse complessa.
Gli uomini di legge non avrebbero niente da fare se le risposte fossero troppo
semplici! Vuole sapere chiaramente quali sono i suoi doveri. Gli ebrei
riflettevano molto su chi fosse il prossimo. La parola prossimo significa alla
lettera «qualcuno che mi sta vicino». Più vicino è, e più doveri ho verso di lui. Certe persone
erano così lontane da non essere affatto considerate come «prossimo», e quindi
a loro non era dovuto alcunché. E questo valeva in modo particolare per quegli
eretici dei samaritani.
È un problema anche per noi oggi in Europa. Chi è il nostro
prossimo? La nostra famiglia? Sì, specialmente in Italia! Le persone che ci
vivono accanto? Forse nei paesi sì, ma non nelle grandi città, dove a volte non
conosciamo nemmeno il nome di quelli che abitano sul nostro pianerottolo. Che
obblighi abbiamo nei loro confronti? E le persone che vivono negli altri paesi
dell’Unione Europea sono anch’essi il nostro prossimo? Gli inglesi sono il
prossimo degli italiani? Sì, quando si tratta del primo ministro, ma molto meno
quando si tratta di tifosi di qualche squadra di calcio! E che obblighi abbiamo
nei confronti degli immigrati che arrivano ogni giorno in Europa attraverso le
nostre frontiere, dall’Europa dell’Est, dall’Asia e dall’Africa? E che dire
degli immigrati clandestini, che fuggono dalla povertà e talvolta anche
dall’oppressione politica? Sono anche loro il nostro prossimo? Come il dottore
della legge, anche noi vogliamo risposte chiare. Vogliamo sapere che cosa
dobbiamo fare.
Ma Gesù non dà una risposta chiara e si limita a raccontare una
storia.
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. .
Le parabole non sono spiegazioni di una tesi. Sono eventi forti
che ci trasformano, che rivoltano le nostre vite come calzini. Un rabbino,
citato da Martin Buber, raccontava questa storia riguardo a suo nonno, che era
stato allievo del famoso rabbi Baal Shem Tov. Diceva: «Mio nonno era
paralizzato. Una volta gli chiesero di raccontare qualcosa sul suo maestro, e lui
raccontò che il santo Baal Shem Tov quando pregava aveva l’abitudine di saltare
e ballare. Durante il racconto mio nonno si alzò in piedi, e la storia lo
trascinò a tal punto che dovette mettersi a saltare e ballare per far vedere a
tutti come faceva il suo maestro. E da quel momento mio nonno guarì dalla
paralisi. È così che andrebbero raccontate le storie».
Le parabole di Gesù devono catturarci e trascinarci via. Quando ci
ritroviamo proprio all’interno delle parabole, esse ci trasformano. Di solito,
le parabole di Gesù raggiungevano questo obiettivo scuotendo profondamente gli
ascoltatori. Il problema è che noi le conosciamo così bene che spesso non ci
sorprendono più. È come ascoltare una barzelletta sapendo già come va a finire.
Dobbiamo tornare a lasciarci sorprendere. La parabola del buon samaritano suonò
scandalosa all’orecchio dei primi che la ascoltarono, e noi dobbiamo riscoprire
quello choc iniziale.
Durante la rivoluzione in Nicaragua, un domenicano statunitense
aiutò un gruppo di giovani nicaraguensi a rappresentare la parabola del buon
samaritano durante una messa. I ragazzi misero in scena un giovane nicaraguense
picchiato e abbandonato più morto che vivo sul ciglio della strada. Un frate
domenicano gli passò di fianco ma lo ignorò, e lo stesso fece un ministro della
Parola. Poi passò per quella strada un nemico, un contra, con addosso l’uniforme militare, e
si fermò. Mise intorno al collo del ragazzo un rosario, gli diede da bere un
po’ d’acqua e lo trasportò fino al villaggio più vicino. A quel punto della
rappresentazione, metà dell’assemblea cominciò a gridare e a protestare. Per
loro era inaccettabile che uncontra si
comportasse in quel modo. «Sono gente tremenda, i contras. Noi non abbiamo niente a che fare
con loro». La messa finì nel caos. Poi tutti si misero a discutere sul
significato di quella parabola, e siccome erano stati molto turbati arrivarono
a capirla più in profondità. Presero la decisione comune di non chiamare più
gli altri los contras, ma «i nostri cugini in Honduras» o
«i nostri cugini che sbagliano». Poi ripartirono dall’atto penitenziale, si
scambiarono il bacio della pace e continuarono la celebrazione eucaristica. È
questo lo sconvolgimento che questa storia dovrebbe produrre in tutti noi.
Ovviamente, il primo elemento sconvolgente è che sia proprio
quest’uomo impuro, questo eretico, il samaritano, a offrire il suo aiuto, e non
il sacerdote o il levita. Ma secondo me la parabola lancia una provocazione ben
più grossa: una provocazione alla nostra idea di che cosa voglia dire essere
«umani», e di chi sia Dio.
La storia racconta di un viaggio da Gerusalemme a Gerico. Io ho
percorso quel tratto di strada a piedi, lungo lo Wadi Qelt. Sono circa 25 chilometri attraverso una regione
di deserto roccioso. Faceva così caldo che uno dei miei compagni è andato un
po’ fuori di testa. Badate bene, era un domenicano, quindi non era una cosa
così strana! Ma sto parlando di un viaggio più profondo. Il termine che Luca
usa per «viaggio» è lo stesso termine (hodos) che usa per indicare la fede
cristiana, «la via». La parabola è un viaggio che trasforma la nostra
comprensione di Dio e dell’umanità.
“Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è
incappato nei briganti?”
Il dottore della legge chiede: «Chi è il mio prossimo?». Alla fine
della storia, Gesù pone una domanda diversa: «Chi di questi tre ti sembra sia
stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Nella sua domanda,
il dottore della legge si mette al centro: chi è il suo prossimo? Ma la
parabola ribalta la domanda: adesso è l’uomo ferito che viene posto al centro.
Chi si è fatto suo prossimo?
Questo è il viaggio più radicale che ogni essere umano deve
compiere: la liberazione dal proprio egoismo. E un viaggio che cominciamo da
piccolissimi. Il neonato è il centro del suo piccolo mondo. Per lui crescere
vuoi dire scoprire, lentamente, che esistono altre persone, e che queste
persone non sono lì per soddisfare ogni suo desiderio. Dietro il seno che
allatta c’è una madre. Si diventa pienamente umani quando si impara a cedere il
centro ad altri.
Per ciascuno di noi la più grande sfida nella vita è smettere di
essere al centro del mondo. E una verità che conosco con la ragione, ma che è
terribilmente difficile da raggiungere. E a me pare che sia particolarmente
difficile nella società contemporanea. La modernità ha consacrato l’immagine
dell’essere umano come essenzialmente solitario, staccato dagli altri, libero
da obblighi, disimpegnato. Questo è l’ego della società dei consumi. In Italia,
forse, grazie a Dio, avete in qualche modo conservato una visione più antica e
tradizionale dell’essere umano. Ma ovunque nel villaggio globale vediamo i
segni del trionfo della «generazione dell’lo», della tirannia dell’ego. Come si
può imparare a lasciare il centro agli altri?
«Un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto (all’ ‘uomo
ferito) lo vide e n‘ebbe
compassione»
Il termine che traduciamo con «avere compassione» è uno dei più
importanti del Nuovo Testamento. Significa essere toccati nel profondo, al centro
dei proprio essere, nelle viscere. E lo choc che si prova quando ci si accorge
di un altro.
A New York fu fatto un esperimento. Fu chiesto a un gruppo di
seminaristi di preparare un’omelia sulla parabola del buon samaritano come
parte dell’addestramento alla predicazione. I giovani prepararono i loro testi
in un certo edificio. Poi uscirono e dovettero fare un tratto di strada per
recarsi altrove, e intanto qualcuno li filmava. Lungo la strada, sul
marciapiede, c’era un uomo ferito e coperto di sangue che chiedeva aiuto (in
realtà, si trattava di un attore). L’80% dei seminaristi gli passò di fianco
senza neanche notarlo. Avevano appena finito di studiare la parabola e di
scriverci sopra delle belle parole, ma questo non impedì loro di passare
accanto all’uomo ferito ignorandolo completamente. Come si fa ad aprirsi
all’altro?
La maggior parte degli esseri umani sperimenta nel modo più
radicale questa piena consapevolezza dell’altro quando si innamora. miss
Murdoch, filosofa inglese, ha detto che l’innamoramento è «per molte persone
l’esperienza più straordinaria e rivelatrice della loro vita, grazie alla quale
il centro del senso viene improvvisamente sradicato dal sé, e l’ego sognante è
scosso dalla consapevolezza di una realtà totalmente separata».’ Quando ci
innamoriamo, smettiamo, almeno di tanto in tanto, di essere al centro
dell’universo e lasciamo che sia un altro a occupare quel posto. Smettiamo di
essere il sole e diventiamo la luna.
Questo però non ci aiuta a rispondere alla nostra domanda. Non
possiamo innamorarci di tutti! E poi, il buon samaritano non si era certo
innamorato dell’uomo ferito lungo la strada! Quindi la domanda è questa: come
si fa a lasciarsi coinvolgere dalle persone che non conosciamo nemmeno? Il
samaritano è coinvolto perché vede l’uomo ferito. Il sacerdote e il levita,
invece, pur vedendolo, non vi intravedono una persona che ha bisogno di aiuto,
bensì una possibile fonte di impunità. Ma torneremo dopo a parlare di loro.
La prima provocazione è tenere gli occhi aperti per vedere. Poco
prima di raccontare la parabola del buon samaritano, Gesù si era rivolto ai
suoi discepoli dicendo: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» (Lc
10,23). Quando ero studente a Oxford, decidemmo di aprire un ostello per
barboni. Le strade di Oxford erano piene di vagabondi, perché i turisti sono
generosi. Decidemmo allora che il primo passo da fare era compiere un’indagine
notturna per vedere quanta gente dormisse per strada. Formammo sei gruppi di
studenti per setacciare ogni angolo della città. Ci ritrovammo alle 5 del mattino, e non avevamo trovato
neanche un barbone che dormisse per strada! Erano sicuramente lì, da qualche
parte, ma non avevamo saputo dove guardare! Quelle persone erano invisibili ai
nostri occhi!
Tutte le società rendono visibili certe persone e ne fanno
scomparire altre. Nella nostra società sono molto visibili i politici e le star
del cinema, i cantanti e i calciatori, che si presentano continuamente in
pubblico, sui cartelloni pubblicitari e sugli schermi televisivi. Ma rendiamo
invisibili i poveri. Essi non compaiono nelle liste elettorali. Non hanno volto
né voce. Nemmeno gli immigrati illegali possono permettersi visibilità: se non
hanno i documenti a posto, devono cercare di non dare nell’occhio. Devono apprendere
l’arte di mimetizzarsi.
Quando il papa andò a visitare la Repubblica Dominicana, il
governo fece costruire un muro lungo il tragitto dall’aeroporto al centro città
per impedirgli di vedere le baracche dove vivevano i poveri. La gente adesso lo
chiama «il muro della vergogna». E noi, abbiamo il coraggio di guardare i
nostri poveri e di lasciarci commuovere da loro? Quali muri della vergogna
costruiamo nella nostra società per nascondere i poveri?
«(Il samaritano) gli si fece vicino, gli fasciò le ferite,
versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una
locanda e si prese cura di lui Il giorno seguente, estrasse due denari e li
diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più,
te lo rifonderò al mio ritorno”».
Lasciarsi commuovere non basta. Quando vedo un film, io mi lascio
molto coinvolgere e piango facilmente, tanto che i miei amici si sentono
imbarazzati a venire con me al cinema! Ma alla fine del film, quando si esce e
si va mangiare una bella pizza, me ne dimentico rapidamente. Tutti soffriamo
per la «fatica della compassione». Sugli schermi delle nostre tv vediamo
migliaia di immagini di uomini feriti e moribondi, di donne e di bambini lungo
il ciglio della strada. Come facciamo a reagire a tutte quante?
Mentre stavo scrivendo questa meditazione, proprio a questo punto
è venuto a trovarmi un vescovo domenicano del Guatemala. Egli mi ha descritto
la povertà della gente, le sofferenza causate da uragani e terremoti, la
corruzione del governo e la persecuzione contro la Chiesa. Mi sono
profondamente commosso, ma appena se n’è andato, io mi sono rimesso a scrivere
il mio intervento sul buon samaritano! È molto più facile scrivere riflessioni
sulle parabole che viverle! Come diceva (mi pare) George Bernard Shaw, «chi può
fa, chi non può insegna»!
La compassione del samaritano sconvolge i suoi piani. Si era
preparato al viaggio portandosi appresso cibo, acqua e denaro. Ora queste cose
vengono usate per uno scopo che non aveva immaginato. Due denari erano una
bella somma, sufficiente a pagare vitto e alloggio per più di tre settimane.
Egli dà addirittura ciò che ancora non ha, cioè i soldi che probabilmente spera
di guadagnare a Genico. Corre il rischio di una promessa che è aperta, senza
limiti predeterminati.
Quando il dottore della legge chiede «Chi è il mio prossimo?»,
vuole definire i propri obblighi. Vuole sapere in anticipo che cosa deve fare e
che cosa non è tenuto a fare, mentre la risposta del samaritano lo conduce in
territori sconosciuti. Non può prevedere quanto l’albergatore gli chiederà al
suo ritorno. C’è una vecchia battuta che dice: «Se vuoi far ridere Dio, digli
che progetti hai».
La vera compassione sconvolge i nostri progetti e ci conduce dove
non ci aspettiamo. Se abbiamo il coraggio di guardare i poveri, i feriti, gli
stranieri che sono fra noi, chissà quali conseguenze dovremo pagare.
«Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è
incappato nei briganti?» Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù
gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso»
Abbiamo già rilevato che il dottore della legge fa una domanda in
cui mette se stesso al centro, mentre Gesù risponde con una domanda che mette
al centro l’altra persona. Ma c’è anche un’altra differenza. Il dottore della
legge chiede chi è il suo prossimo. L’assunto di fondo è che abbiamo già dei
«prossimi», ma dobbiamo definire bene di chi si tratta. Ma Gesù risponde
chiedendogli chi si è fatto prossimo dell’uomo ferito. Il samaritano è
diventato prossimo di quell’uomo. Ha creato una relazione che prima non
esisteva.
In questo periodo l’Europa è ossessionata dalla paura dell’altro.
Sembra che i gruppi neo-nazisti in Germania stiano crescendo. Di recente in
Inghilterra ci sono stati scontri interrazziali nelle città settentrionali di
Oldham e Leeds. L’Europa si sente minacciata dagli stranieri. All’interno di
ogni società esiste la paura di quelli che sono diversi, che hanno religioni
diverse, un diverso colore della pelle, che si vestono in modo diverso, parlano
lingue diverse. La parabola ci invita a farli diventare nostro prossimo. Helder
Camara, arcivescovo di Recife in Brasile, fu spesso accusato di essere un
comunista per la sua preoccupazione verso i poveri che vivevano nelle favelas
sulle colline intorno alla città. Diceva:
«Se non vado io sulle colline a incontrarli come fratelli e
sorelle, saranno loro a scendere in città con bandiere e fucili».
«Va’ e anche tu fa’ lo stesso». Queste parole sono un invito a
costruire una società che non esiste ancora. Una politica cristiana è ben più che la semplice gestione
della società e la regolazione di interessi in competizione fra loro. Parlare
di «Coscienza cristiana e nuove responsabilità della politica» significa sempre
far fronte al futuro. E un proiettarsi verso una comunità in cui il diverso, lo
straniero, il povero siano veramente nostro prossimo. È un puntare verso il
Regno. Diversamente dal comunismo, noi cristiani non pensiamo di potere
costruire il Regno da noi stessi. Esso verrà come un dono immeritato e
superiore a ogni nostra immaginazione. Ma la nostra politica, nel tendere verso
la comunione con l’altro, apre le nostre mani a ricevere quel dono. La politica
è stata definita come «l’arte del possibile». La politica cristiana è segnata
dalla speranza di ciò che molti considerano impossibile. La politica cristiana
è l’arte dell’impossibile. Noi vogliamo correre il rischio di tendere verso una
comunione che è al di là della nostra portata.
In definitiva, ciò significa rinunciare alle piccole identità che ci
separano gli unì dagli altri. La parabola racconta di un viaggio che trasforma
le identità dei partecipanti. L’uomo attaccato dai briganti viene definito
semplicemente «un uomo». Non è specificato se si tratti di un ebreo, di un
samaritano, di un inglese o di un italiano. Egli è ciascuno di noi, ogni essere
umano. E quando Gesù chiede chi si sia fatto prossimo dell’uomo ferito, il
dottore della legge non risponde «il samaritano». Dice semplicemente «chi ha
avuto compassione di lui». Anche il samaritano è stato liberato dalla sua
piccola identità di eretico. La storia comincia come una storia di ebrei e
samaritani, e diventa la storia di due esseri umani. Gli unici che mantengono
la loro vecchia identità sono quelli che si limitano a passare senza fermarsi,
il sacerdote e il levita, che perdono l’opportunità di scoprire un modo nuovo
di essere umani. Il loro cammino li vede passare oltre, ma in realtà sono
immobili nella loro vecchia identità.
Bisogna amare il prossimo come sé stessi. Questo significa molto
di più che amare il prossimo tanto quanto sé stessi. Siamo invitati ad amare il
nostro prossimo come parte di noi stessi. Amiamo i membri della nostra famiglia
come noi stessi, perché sono parte di ciò che siamo noi. Siamo una sola carne,
siamo dello stesso sangue. Amare lo straniero come me stesso significa scoprire
una nuova identità, che mi trasforma. Il samaritano esercita quella che noi
definiamo «carità», ma nel senso più antico del termine. Fino al Seicento,
almeno nella lingua inglese, «carità» indicava il vincolo che ci lega gli unì
agli altri come membra del Corpo di Cristo. Dopo il Seicento, in seguito a
un’ampia trasformazione del modo in cui intendiamo la nostra umanità, il
termine è passato a indicare soprattutto il denaro che diamo ai poveri. Ha
smesso di esprimere l’amore per i nostri fratelli e le nostre sorelle e ha
cominciato a indicare l’aiuto offerto a degli estranei.
A volte, quando Helder Camara veniva a sapere che un poveraccio
era stato preso dalla polizia, faceva una telefonata al commissariato e diceva:
«Ho saputo che avete arrestato mio fratello». Subito la polizia si profondeva
in scuse: «Che terribile errore, eccellenza! Non sapevamo che fosse suo
fratello. Lo rilasceremo immediatamente!». E quando l’arcivescovo andava alla
stazione di polizia a prendere quella persona, i poliziotti gli dicevano: «Ma,
eccellenza, quest’uomo non ha lo stesso suo cognome». Allora Camara rispondeva
che ogni povero era suo fratello e sua sorella.
Quindi, amare il prossimo significa mettersi in cammino. La strada
non porta soltanto da Gerusalemme verso Gerico, ma verso il Regno, dove
scoprirò pienamente chi sono io. E un viaggio che mi libera da tutte le mie
piccole auto-definizioni e che mi rende conforme a Cristo. Come scrive
Giovanni, «ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando
egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come
egli è».
Come si fa ad avere il coraggio di intraprendere questo rischioso
viaggio verso il Regno? Come si può partire da Gerusalemme verso Gerico?
Potremmo incappare nei briganti ed essere lasciati agonizzanti lungo il ciglio
della strada. Potremmo incontrare un uomo ferito, e l’incontro potrebbe
cambiare la nostra vita. Non è più sicuro se restiamo a casa? In definitiva, possiamo
osare di metterci per «la via» perché Dio ci ha preceduto. Dio è già andato da
Gerusalemme a Gerico, e noi possiamo seguirlo in tutta sicurezza.
La parabola ci racconta la trasformazione dell’identità umana. Ma
più in profondità c’è anche un’altra storia: la trasformazione dell’identità di
Dio. Ma non vi preoccupate, la racconterò molto in breve!
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico...
Gerusalemme è la città santa, il luogo in cui Dio dimora
all’interno del tempio. Ma il viaggio ci ha portato via dal tempio, ci ha
allontanato dal luogo più santo della Terra.
Anche il sacerdote sta andando a Gerico. In effetti, a Gerico
vivevano molte famiglie di sacerdoti, e quando costoro avevano finito il loro
turno al tempio rientravano a casa per la stessa strada. Quando il sacerdote
vede il corpo dell’uomo ferito, passa oltre. Perché? Non necessariamente perché
sia senza cuore. L’uomo ferito viene descritto come «mezzo morto». E
generalmente riconosciuto che il sacerdote non avrebbe potuto toccare il corpo
di quella persona mezza morta, perché ciò lo avrebbe reso impuro. Il Dio della
vita non ha nulla a che fare con la morte, e dunque ai sacerdoti del tempio era
assolutamente vietato toccare i cadaveri. Egli non vede un uomo che ha bisogno
di aiuto, ma una minaccia alla sua santità. E il levita, che serviva anche lui
nel tempio, sarà passato di fianco al moribondo senza fermarsi per la stessa
ragione.
Il samaritano era totalmente distante dalla santità del tempio.
Era un eretico e uno scismatico. I samaritani avevano costruito un altro
Tempio. Erano l’impurità incarnata. Ma i suoi gesti di compassione rivelano il
nuovo luogo in cui si rivela la santità di Dio. E addirittura possibile che il
riferimento al vino e all’olio siano un richiamo a due elementi usati nei
sacrifici all’interno del tempio. Qui troviamo il vero luogo del sacrificio in
cui dimora Dio. Nell’intero testo risuona continuamente la frase di Osea 6,6
«misericordia io voglio e non sacrificio». E il samaritano trasporta l’uomo in
una locanda. In greco l’evangelista usa una parola suggestiva che significa
«accogliente verso tutti». I cadaveri non sono una minaccia alla santità vera.
In realtà, il Dio della vita può abbracciare i morti e ridare loro la vita. La
croce è il vero tempio in cui si manifesta la gloria di Dio.
Uno dei funerali più commoventi che io abbia mai celebrato fu
quello per un uomo di nome Benedict, che morì di AIDS intorno al 1985. Gli diedi l’unzione degli infermi
un’ora prima che morisse e gli chiesi se avesse qualche desiderio da esprimere.
Mi rispose che avrebbe desiderato essere sepolto nella Cattedrale di
Westminster. Quella era un’epoca in cui si sapeva ancora poco dell’AIDS e
c’erano molte paure e pregiudizi. Ma le autorità della Cattedrale accolsero la
sua richiesta, e la sua bara fu posta proprio al centro della cattedrale, al
cuore del cattolicesimo inglese. E stato un bel segno di dove si trova Dio.
Benedict era stato stroncato da una malattia tremenda, che porta con sé
rifiuto, repulsione e paura. Ma adesso era al centro di quel luogo santo,
circondato dai suoi amici, molti dei quali affetti a loro volta dall’AJDS. Il
Dio della vita si manifesta quando quelli ai margini diventano il centro.
«Chi è il mio prossimo?», chiese il dottore della legge. E una
domanda che ritorna ossessivamente nell’Europa di oggi. Che obblighi abbiamo
verso gli altri? Ci sono molte e difficili domande a cui dobbiamo cercare
faticosamente una risposta. Gesù non ci offre una risposta facile, e noi non
possiamo assolutamente fare a meno degli uomini di legge e dei politici. Ciò
che la parabola fa è cambiare il modo di porre queste domande. Come posso
diventare prossimo dell’uomo ferito? Come posso scoprire me stesso con lui e
per lui? Come faccio a scoprire Dio in questa situazione? Perché, in definitiva,
è proprio Dio che giace sul ciglio della strada, lacero e stremato, e mi sta
aspettando.
TIMOTHY RADCLIFFE op
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